Il libero arbitrio nella malattia

Il libero arbitrio nella malattia

15 Dicembre 2019

L’ordinamento giuridico italiano associa alla vita di tutte le persone una componente fondamentale: la capacità giuridica. Essa, secondo l’art. 1 cod. civ., si acquista al momento della nascita e si perde soltanto con la morte. Si intende, con questa espressione, l’idoneità a essere titolari di diritti e obblighi. Una qualità che compete a tutti e che, secondo l’art. 22 Cost., non può essere privata per motivi politici. L’esistenza di una persona, sempre secondo una visione non restrittiva, si sviluppa attraverso due profondi sentimenti: la libertà e l’autodeterminazione. Sono questi i parametri attorno ai quali è possibile disquisire di un’altra tematica che solo apparentemente potrebbe sembrare antistante, quella del fine vita. Per anni molti hanno rigettato il tema definendo inammissibile il fatto che uno Stato, che tuteli la vita, infondi dignità giuridica a questi momenti.

A porre un freno al continuo tentativo di sminuire la materia ci ha pensato la Corte Costituzionale che, il giorno 24 ottobre, nella sentenza del caso Cappato, ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’art. 580 cod. p., per permettere al Parlamento di intervenire con una appropriata disciplina. Con fatica e tempo l’organo legislativo italiano è riuscito ad esprimersi su un solo aspetto della vicenda, quello relativo al testamento biologico, che permette alle persone che ancora possiedono la capacità di intendere e di volere di sottoscrivere un documento che contenga le loro volontà in caso di malattie terminali. È stata la grande vittoria dei Radicali e dell’Associazione Luca Coscioni che da anni combatte affinché queste disposizioni vengano accolte. Al quadro vigente tuttora manca però un tassello decisivo: quello dell’eutanasia e del suicidio assistito. Quando si parla di interventi di questo tipo, si intendono sempre malattie molto gravi e degenerative per le quali non è medicalmente prevista una guarigione. Attualmente in Italia chi non è riuscito a sottoscrivere in tempi utili il bio-testamento, entrato in vigore un anno fa, è costretto a sottoporsi alle cure senza l’intervento e la possibilità di porne fine. Da qui ha origine l’interesse costituzionale di permettere, in certi limiti e soltanto in specifici casi, non di scappare dalla vita ma di evitare un calvario le cui sofferenze non condurranno mai ad una guarigione. Questo non significa affatto che tutte le persone che si trovano in questo stato devono necessariamente incorrere nell’eutanasia. La scelta spetta unicamente al soggetto. E tale libertà è garantita dallo Stato nella messa in atto di strutture (gli hospice) che ricevono soggetti di questo tipo e ai quali somministrano cure mirate come, ad esempio, quelle palliative e la cosiddetta terapia del dolore, che non hanno un potere curativo ma solo di alleviamento del dolore. È chiaro dunque che il sistema è privo di un tassello fondamentale, quello dell’eutanasia, che permetta ai pazienti di scegliere in piena libertà e di non essere costretti a sottoporsi a cure che non intendono ricevere.

L’errore comune che si fa, in questi casi, è legato alla volontà di voler attribuire un valore morale alla morte. Ma ad essere al centro dell’impianto giuridico e normativo italiano non può e non deve esservi il giudizio ad un momento della vita. Deve invece esserci sempre la persona. La cui vita viene tutelata perché è attraverso di essa che si auto-determina e contribuisce al progresso della società. Ma le cui libertà e la possibilità di autodeterminarsi non può essere messa in discussione. La battaglia che in molti hanno intrapreso non è a favore della morte, è a favore della possibilità di scegliere. E questo è un aspetto che non intacca solo il sistema normativo, ma anche quello ospedaliero. Non si può parlare di rivoluzione medica solo quando si scoprono cure o si costruiscono strumenti all’avanguardia per le operazioni. C’è anche un sostrato culturale ed è quello su cui si basa il rapporto paziente – dottore. Quella del paziente è una posizione che è sempre stata considerata debole, e quindi da tutelare, e che ha di fatto permesso agli stessi di essere soggetti alle cure senza piena consapevolezza. È definito “consenso infomato” e nell’ordinamento italiano è giunto attraverso la ricezione della Convenzione di Oviedo e consente al paziente di ricevere tutte le informazioni di cui necessita sulla sua malattia e sulle possibili cure. È chiaro allora che la rivoluzione a cui si allude, e che è stata prodotta soprattutto dalle lotte a favore del fine vita, è quella che pone il paziente non più come soggetto debole, di passiva ricezione delle cure, ma consapevole della sua condizione. Il tema del fine vita ha perciò lanciato un messaggio chiaro e forte: un paziente, che sia un malato terminale o no, è e resta sempre un soggetto libero. La cui decisione e possibilità di autodeterminarsi vale più del giudizio altrui sulla morte.

Tratto dal bollettino informativo “Il giorno del giudizio“.