In memoria di Giulio Regeni

In memoria di Giulio Regeni

25 Gennaio 2021

Esattamente cinque anni fa Giulio Regeni veniva spogliato di ogni libertà e diritto. Alle 19:41 inviava l’ultimo sms dal suo cellulare e solo qualche ora dopo sul social network facebook un’amica iniziava ad interrogarsi sui suoi spostamenti. L’hashtag #whereisgiulio si trasformò in #veritàpergiulio quando il 3 febbraio il suo corpo venne rinvenuto senza vita vicino a una prigione dei servizi segreti egiziani. In quelle contusioni, abrasioni, lividi, fratture ossee, costole e denti rotti, bruciature da sigaretta che coprivano l’intero corpo di Giulio, la madre ci vide “tutto il male del mondo”.

Quel male lo abbiamo a poco a poco conosciuto tutti nei cinque anni che si sono susseguiti e che ci hanno condotto fin qui, fino ad oggi, fino al giorno in cui possiamo scrivere che ci sono dei nomi e un processo che sta per iniziare. Tariq Sabir, Athar Kamel Mohames Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif sono i quattro 007 egiziani accusati di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali aggravate e omicidio aggravato. Erano 13 i soggetti inseriti nel circuito indagati ma la mancata collaborazione delle autorità egiziane ha impedito di individuarne le posizioni in merito agli eventi che condussero Giulio alla morte. 

Con l’aiuto di alcuni testimoni oculari l’attività di ricostruzione degli eventi si è conclusa con la determinazione di elementi sufficienti per consentire il rinvio a giudizio dei quattro 007 egiziani. Nella ricostruzione contenuta nell’avviso di conclusione delle indagini si legge: “per motivi abietti e futili ed abusando dei loro poteri, con crudeltà cagionavano a Giulio Regeni lesioni” che “hanno comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi”; hanno causato “acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni: attraverso strumenti dotati di margine affilato e tagliente ed azioni con meccanismo urente, con cui gli cagionavano numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, dei tratto cervico dorsale e degli arti inferiori; attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti (calci o pugni e l’uso di strumenti personali di offesa, quali bastoni, mazze) e meccanismi di proiezione ripetuta del corpo dello stesso contro superfici rigide ed anelastiche”.

Dopo cinque anni di mobilitazione e appelli, la verità processuale inizia almeno a rientrare nel vaglio delle possibilità. Non si può dire lo stesso del peso politico e governativo che il nostro paese sta avendo in relazione al caso. Nonostante il perdurare dello stato di arresto dello studente Patrick Zaki e nonostante la sempre più chiara violazione dei diritti umani perpetrati in Egitto ad opera del regime, l’Italia continua ad evitare di mettere in discussione i rapporti diplomatici tra i due paesi. Al punto che, solo un mese fa, ha consegnato all’Egitto la prima fregata Framm in aperta violazione della legge n.185 del 1990, che sancisce il divieto di esportazione di armi a paesi i cui governi si sono macchiati di violazione di diritti umani.

La magistratura e la politica italiana sembrano camminare lungo due strade diverse. Da una parte la ricerca incessante di verità e giustizia, dall’altra i rinnovati scambi commerciali. In mezzo ci sono le famiglie di Giulio Regeni, di Patrick Zaki e di una diffusa società civile poco incline a voler credere che per l’Italia gli affari economici siano più rilevanti del rispetto dei diritti umani.

Oltre sessantamila persone sono attualmente in arresto in Egitto, vengono torturate, subiscono processi davanti a tribunali militari e non vengono umanamente rispettate. Davvero l’Italia intende accettare tutto questo? Davvero si può restare inermi di fronte all’installazione delle oltre cento sagome di Patrick dell’Università di Bologna? Quale valore intende dare il nostro paese alla ricerca accademica e al rispetto dei diritti umani insegnati spesso proprio negli atenei?

Se l’Italia tiene a tutto ciò, la politica dovrà essere in grado di cambiare la traiettoria della sua strada e avvicinarla il più possibile a quella della magistratura. Solo in questo modo riusciremo a salvare Patrick Zaki e a non perdere più uno studente in Egitto