Immaginare un post-pandemia: l’intervista al professor Gennaro Avallone

Immaginare un post-pandemia: l’intervista al professor Gennaro Avallone

21 Gennaio 2021

Sin dall’inizio dell’emergenza sanitaria la parola d’ordine è stata ‘distanza’. Questo ha prodotto un cambiamento radicale nelle nostre vite, le misure anti-Covid ci hanno infatti insegnato che è possibile produrre e studiare a distanza, ma anche che il contatto umano è fondamentale per la vita delle persone. In un periodo così incerto, verso la fine di un incubo che sembra avvicinarsi all’alba di un nuovo vaccino, non possiamo che chiederci quali effetti queste misure hanno avuto sul nostro sistema sociale ed economico. Ne parliamo con Gennaro Avallone, docente presso il Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università di Salerno.

L’emergenza sanitaria ha letteralmente sconvolto le vite di lavoratori e lavoratrici mettendo alle strette alcuni settori produttivi a causa della scelta tra salute e lavoro. Il Governo è stato o non è stato capace di bilanciare i due interessi? D’altro canto, una piccola rivoluzione commerciale sta avvenendo con l’avvento di nuove forme organizzative di commercio, incrementando ad esempio la filiera corta. Immaginando una realtà post pandemia, quanto effettivamente sarà possibile ripensare il mercato del lavoro?
È necessaria premettere che è difficile dare risposte definitive durante la transizione che stiamo vivendo, anche perché mancano dati consolidati su cui ragionare e i cambiamenti non hanno preso direzioni precise. Questa premessa è per me fondamentale per evitare di esprimere analisi ancora in via di elaborazione come certezze, ma lo è anche nel senso che i cambiamenti in corso determinati dalla pandemia e dalle risposte alla pandemia non saranno univoci, non andranno tutti nella stessa direzione. Questo è sicuramente vero per quanto riguarda il lavoro. C’è da considerare che non tutti i tipi di occupazione e attività produttive sono cambiati nelle loro modalità di erogazione. Si pensi, ad esempio, al lavoro in agricoltura, così come si pensi al fatto che tanti lavori non verranno modificati nelle loro modalità di svolgimento: ad esempio, tutti i lavori di cura e assistenza diretta alle persone. Quello che è meno certo è cosa accadrà nei mercati del lavoro, considerando che, nella crisi in corso, le pressioni di una parte del mondo produttivo vanno verso un’ulteriore intensificazione di flessibilità e precarietà. E questa pressione è collegata alla prima parte della domanda, quella relativa al rapporto salute-lavoro. Io credo che, in Italia, il tema sia stato salute-economia, nel senso che le pressioni del mondo delle imprese, il dibattito pubblico e le decisioni politiche si sono preoccupati dei settori economici, dei loro andamenti, mentre il lavoro, cioè le condizioni di chi concretamente usa la propria forza lavoro per produrre, è stato messo in secondo piano, tenuto sullo sfondo. La centralità delle imprese e dell’economia, invece del lavoro, ha condizionato le scelte governative e delle regioni, favorendo, nella prima fase, tra Febbraio e Marzo 2020, una serie di ritardi nelle decisioni da prendere sulle chiusure divenute necessarie, nella seconda fase, quella estiva, una serie di riaperture, come quelle delle discoteche, problematiche dal punto di vista della diffusione dei contagi, e, nella terza fase, le incertezze sulle chiusure necessarie, fino al dibattito surreale sui pranzi e cenoni di Natale.

L’incremento dello smart working, degli e-commerce e in generale dell’incremento della tecnologia all’interno della nostra quotidianità, ci hanno insegnato non solo a vivere ma anche a produrre a distanza. Tuttavia si registra un aumento del tasso disoccupazionale per lavoratori e lavoratrici autonomi e soprattutto per le donne, prive di aiuti per gestire la maternità proprio a causa, ad esempio, delle attività scolastiche a distanza. Quanto è possibile conservare secondo Lei, all’interno della nostra esistenza l’uso delle nuove tecnologie? Con un superamento del Digital Divide possono davvero giovare all’approccio al lavoro e alle relazioni sociali?
La questione è molto articolata e differenziata al suo interno e anche su questo, insisto, non ci sono risposte né definitive né univoche. Alcuni tipi di lavoro o parti di attività lavorative useranno maggiormente le tecnologie anche successivamente. Ad esempio, nel mondo dell’università per le riunioni. Altri tipi di lavoro non ne verranno interessati in quanto non lo sono ora e non lo possono essere per i modi in cui si svolgono e penso, ad esempio, a tutti i lavori di cura. Bisogna liberarsi, in questo senso, dell’idea che il lavoro concreto possa essere tutto subordinato alle stesse forme di erogazione e, quindi, alle tecnologie. Non è così, in quanto esistono molteplici lavori con differenze concrete tra loro e non tutti trasformabili radicalmente dalle tecnologie. E questo è un dato di fatto, ma anche un problema in quanto i lavori con basso contenuto tecnologico producono un valore aggiunto basso e tendono ad essere pagati poco e ad avere un basso riconoscimento sociale, sebbene siano mansioni senza le quali le società non esisterebbero: si pensi alla cura dei bambini e degli anziani o alle pulizie, per fare due esempi di quotidiana esperienza. Le tecnologie non sono in grado di liberare tutto il lavoro e non lo sono in quanto tali. Questo esito, possibile, dipende dai rapporti di forza tra lavoro e imprese e tra lavoro e Stato. In altre parole, se il lavoro è fortemente ricattabile, allora è difficile che le tecnologie possano rafforzarlo, ad esempio riducendone la precarietà. Questa considerazione si collega al tema del divario digitale: ridurlo è l’esito possibile di una scelta politica, la quale si prende, o non si prende, in base ai rapporti di forza vigenti, anche tra aree territoriali. Quindi, è chiaro che ridurre le disuguaglianze, comprese quelle digitali, è necessario per migliorare relazioni sociali e lavorative, e le possibilità tecniche ci sono tutte affinché questo avvenga. Se non accade è perché nei rapporti di forza tra imprese e lavoro ma anche tra aree territoriali prevalgono i poteri che vogliono confermare le disuguaglianze.

Nell’ultimo DPCM è stata stabilita la chiusura delle attività culturali (biblioteche, teatri, cinema, concerti) garantendo scarsa tutela a lavoratori e lavoratrici dello spettacolo. Si tratta effettivamente di una necessità o è in atto una svalutazione del settore? Mantenere aperti, ad esempio, i luoghi di culto è stata considerata dalla maggioranza della popolazione coinvolta nella misura precedente un’evidente contraddizione. La trova un’azione effettivamente coerente con i criteri di prevenzione del contagio? Viviamo effettivamente in un paese in cui alcuni settori lavorativi sono sacrificabili, ma non una parte performativa della spiritualità?
La contrapposizione tra luoghi di culto e luoghi della cultura è fuori luogo, oltre ad essere infondata. Siamo di fronte a due bisogni importanti. Entrambi. Il fatto che le chiese, le moschee e gli altri luoghi di preghiera siano accessibili rispettando una serie di limiti non significa dire che questo si può estendere, in automatico, a tutti i luoghi di cultura. Così come la contrapposizione non aiuta a capire come riaprire i luoghi della cultura, considerando, tra l’altro, che i luoghi di culto furono chiusi in Primavera durante il periodo di confinamento. Se, invece, si vuole porre il tema della cultura come insieme di attività produttive e, quindi, anche della condizione di chi opera economicamente nel settore, anche come salariato o autonomo alle dipendenze di fatto, allora c’è da dire che tale articolato settore è sacrificato da tempo, con tanto lavoro nero e grigio al suo interno, come già, ad esempio, gli e le occupanti del teatro Valle di Roma ci spiegarono nel 2011. Questo sacrificio sta continuando ora, protratto ormai dal mese di Marzo 2020. Evidentemente, il tema dei cosiddetti ristori andrebbe affrontato ed esteso a tutto il lavoro della cultura, sapendo che questa opzione è comunque limitata, tenendo presente il lavoro grigio ma anche l’informale che caratterizza tali tipi di attività. Evidentemente, per questi lavoratori e lavoratrici, molto spesso con impieghi intermittenti, si pone, come per altre mansioni, il tema di un reddito di cittadinanza, che va oltre la proposta dei ristori e affronta, invece, la questione arte-cultura-reddito.

Fiumi di lavoratori e lavoratrici penalizzati gravemente dalle misure adottate sono scesi nelle piazze più importanti di Italia, alcuni di loro continuano a manifestare il proprio dissenso, in Tv, via social e via web. Molti sottolineano di stare provando un senso di abbandono da parte dello Stato. Un’altra parte della popolazione non comprende la necessità di rivolta né i metodi usati per mostrare le proprie divergenze d’opinioni. Questo malcontento di qui a poco potrebbe maturare ulteriori insurrezioni? E in generale come è possibile manifestare il proprio dissenso in una realtà che non permette il contatto? È possibile che questa situazione si prolunghi? Che per il popolo diventi, anche quando la pandemia sarà finita, meno naturale o più difficile mettere in atto una protesta?
Sul futuro delle manifestazioni pubbliche non sappiamo: sicuramente sappiamo che il conflitto sociale non si è fermato durante i periodi di confinamento. E non è fermo ora. Dal corteo dei metalmeccanici a Genova a quelli dei movimenti per la casa a Roma. Dalle manifestazioni per la salute e sanità pubblica a Napoli e Salerno ed altre città a quelli dei rider a Bologna e Milano, è evidente che i limiti imposti dalle necessità del distanziamento fisico non hanno fermato la necessità di dare visibilità alle richieste di giustizia sociale. Questo, per me, vuol dire che anche successivamente mobilitazioni e manifestazioni continueranno ad esserci. Dunque, dissenso e rivendicazioni continuano e continueranno ad interessare lo spazio pubblico. Ciò che non vedo all’orizzonte prossimo sono quelle che voi chiamate insurrezioni, né prossime né ulteriori. Non abbiamo visto insurrezioni nei mesi precedenti e se il riferimento è ai cortei di fine Ottobre, in particolare a Napoli e Torino, non possiamo usare questa categoria per comprenderli. Ciò che, secondo me, continuerà invece ad accadere saranno le prese di parola per la giustizia sociale, la riduzione delle disuguaglianze, la difesa della sanità pubblica. E verso queste la responsabilità è della politica europea, nazionale e regionale. Devono essere le istituzioni a rispondere a queste prese di parola: è a loro che tocca la responsabilità di dare risposte. Evitando di rispondere con la propaganda o la repressione a istanze e necessità sociali non aggirabili, quali quelle della difesa dall’impoverimento o dall’incremento delle disuguaglianze.

Una città ad alta densità abitativa è più o meno conveniente, dal punto di vista sociale, di una dispersione urbana? Dopo aver affrontato un lockdown in cui avere una casa si è rivelato indispensabile, sarà possibile riaprire un dibattito sulla crisi abitativa che stiamo vivendo con più di 50.000 senza tetto nel nostro paese?
Il tema della casa non è parte del dibattito politico dagli inizi degli anni ‘80 del secolo scorso: ormai da quasi 40 anni. E non è rientrato nel dibattito neanche negli scorsi mesi, se si pensa che in tante città neanche in questa fase è stata data risposta ai bisogni abitativi di chi vive per strada e che nella città di Roma prefettura e Amministrazione di Roma capitale hanno più volte ribadito la volontà di continuare il piano degli sgomberi delle occupazioni abitative. Anche in questo contesto, molte istituzioni pubbliche non riescono ad andare oltre un approccio legge ed ordine che non affronta alcun bisogno e diritto sociale negato, ma, semplicemente, alimenta la macchina della propaganda dell’odio sociale contro poveri ed impoveriti. Ovviamente, un cambio di prospettiva è necessario per assicurare città abitabili da tutte le persone, ma la classe politica che si è formata negli ultimi 20 anni è troppo prigioniera di un’impostazione classista per dare vita a tale cambiamento. La conseguenza sarà quella di avere città sempre più ostili per una parte delle popolazioni urbane e, quindi, anche rendere impossibile un ripensamento dei processi insediativi che hanno diffuso l’urbano in maniera incontrollabile rendendo la vita quotidiana sempre più dipendente dalle auto e, di conseguenza, indebolendo la rete dei trasporti pubblici. Gli effetti negativi di scelte maturate 20-25 anni fa sono stati evidentissimi negli ultimi mesi e, così, anche a causa di trasporti pubblici ridottissimi si è deciso di chiudere le scuole superiori e spostare la didattica esclusivamente a distanza. Ovviamente, tali scelte ormai si sono fatte e se è possibile ripensare il trasporto pubblico e potenziarlo, sicuramente non è pensabile abbandonare ciò che si è costruito negli ultimi tre decenni. Dunque, la città densa può aiutare anche la socialità e la riduzione della mobilità, ma dove la città densa non c’è, allora bisogna pensare a come densificare lo spazio. È possibile farlo, decidendo che si blocca il consumo di suolo, abbattendo così la rendita fondiaria assoluta, e si permette di costruire solo o dove si eseguono opere di riqualificazione edilizia (efficientamento energetico, ristrutturazioni edilizie, ad esempio) o dove si edifica all’interno di aree già edificate. La rendita differenziale che si va a favorire in questo modo potrebbe essere mitigata dai meccanismi della perequazione, tra cui prevedere, ad esempio, anche la disposizione di case ad accesso pubblico, evitando la logica dei quartieri di edilizia popolare e favorendo l’eterogeneità sociale. Questa è una proposta che già l’urbanistica riformista ha proposto negli ultimi decenni in Italia: evidentemente, inascoltata da troppe amministrazioni comunali e regionali ancora interessate, spesso, a favorire la rendita fondiaria assoluta, le speculazioni edilizie.

Il rapporto con la tutela dell’ambiente, durante il primo lockdown, è stato un tema centrale del dibattito pubblico. L’attenzione alla diffusione massiva di rifiuti (mascherine e guanti in plastica) e l’emergere del fenomeno del salto di specie di un virus a causa della riduzione degli habitat naturali della fauna selvatica o dell’abuso di allevamenti intensivi dovrebbe rendere l’ecologia una necessità per l’approccio alla vita. Sarà così o si ritornerà a ritenere le questioni ambientali secondarie?
Diversi studi segnalano il rapporto tra zoonosi ed allevamenti intensivi. Un libro da poco pubblicato del biologo evoluzionsita Rob Wallace dal titolo Dead Epidemiologists: On the Origins of COVID-19 lo ha mostrato molto chiaramente. In un recente articolo per Il Manifesto del 29 Novembre, Ernesto Burgio, medico pediatra, studioso di epigenetica e biologia molecolare e Presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale, ha scritto parole molto precise su questo: “Il principale errore di chi punta esclusivamente su un’ancora aleatoria vaccinoprofilassi di massa consiste nel dimenticare che le pandemie sono drammi socio-sanitari ed economico-finanziari di enormi dimensioni che non potremo evitare senza ridurne le vere cause: deforestazioni, bio-invasioni, cambiamenti climatici e dissesti sociali (a partire dalle immense megalopoli del Sud del mondo)”. Questa consapevolezza esiste nel dibattito pubblico e politico? No. E questo è il problema più serio che dovremo affrontare nei prossimi mesi ed anni. Oltre all’altro problema relativo alle aspettative. Sono in troppi tra politici, giornalisti ed esperti a dire che trovato il vaccino allora il problema sarà risolto. Non è così: con le epidemie bisognerà vivere nei prossimi decenni, a meno che non cambino modo di produzione e modo di uso degli ambienti di vita. Ma questo non è all’ordine del giorno delle istituzioni nazionali ed internazionali. E le mobilitazioni ed i movimenti per la giustizia sociale ed ecologica ne sono ben consapevoli. 

La maggior parte di studenti e studentesse svolge la didattica a distanza da molti mesi. È un sistema che rimarrà all’interno della formazione scolastica e universitaria? Quali sono i pro e i contro di una didattica mista?
Fedele alle premessa iniziale, non posso dire cosa accadrà nei prossimi mesi. Secondo me, si può dire che le disuguaglianze digitali si stanno combinando con le altre disuguaglianze creando due nuove generazioni di italiani ed italiane con maggiori squilibri strutturali al loro interno. Dunque, bisognerà intervenire sui fattori di tali disuguaglianze, favorendo, in ogni caso, l’accesso ad internet con mezzi adeguati a tutta la popolazione, almeno a quella in età scolare, facendo rientrare tali dispositivi tecnologici tra gli elementi minimi del diritto allo studio, come in passato lo potevano essere quaderni, penne e libri. Noi viviamo in un mondo in cui smartphone, tablet, internet, app sono parte dell’ambiente di vita, sono natura come lo sono alberi, fiori e piante. Prima gli adulti lo comprendono e meglio è in termini di politiche scolastiche e formative. Questo non vuol dire che tali tecnologie risolvono magicamente i problemi. Anzi, li accentuano se non riconosciute come un fatto relativo, dunque come una possibilità che acquisisce forza solo in combinazione con altre possibilità, tra cui quella della socialità e della relazionalità, cioè di stare insieme, fare esperienze insieme, passare il tempo insieme. Gli ambienti di vita vanno vissuti nella ricchezza delle loro possibilità, rimuovendo il più possibile le disuguaglianze di accesso, uso e comprensione. Se scuole e università si danno questa missione, come è già per tanti istituti ed atenei e per moltissimi docenti, allora da ogni tipo d organizzazione della didattica è possibile trarre il meglio.

Secondo una statistica redatta da ‘il sole 24 ore’, il 20% degli under 35 ha dichiarato di sentirsi abbandonato in questo periodo. L’Italia è risultata terz’ultima quanto a benessere mentale per l’elevata presenza di giovani che soffrono di ansia e di solitudine. Secondo Lei perché proprio questa fascia d’età è più sensibile in questo momento ad una salute mentale meno integra?
Perché siamo nell’età in cui è richiesto di presentarsi e farsi spazio nel mondo, ma questo non è possibile farlo per via dei limiti agli incontri e dei vincoli del distanziamento fisico. È la prestazione impossibile a produrre questo sentimento. In questo senso, siamo davanti al fallimento di un modello di essere umano a cui adeguarsi proposto alla gioventù di questo paese. Di fronte all’obbligo sociale di essere performativi, l’impossibilità di esserlo produce frustrazione. La domanda diventa: è possibile non sentirsi abbandonati? No, se si segue tale modello di performance. Sì, se questo modello viene criticato, riconoscendo, finalmente, che non è vero che meriti e demeriti sono un fatto individuale, che le colpe sono individuali così come lo sono i meriti dei successi. Si impone concretamente una ridefinizione della presenza nel mondo di fronte alla crisi del modello individualista-performativo. La difficoltà nel costruire nuovi modelli di riferimento potrebbe essere il motivo di una lunga crisi sociale, culturale ma anche sul piano psichico per tante persone, specialmente giovani di età, ma anche il motivo di una transizione, cioè di una ricerca collettiva, fatta attraverso molteplici strade, di nuovi modelli esistenziali e di presenza sociale.

Effettivamente quanto il nostro modo di intendere le relazioni cambierà rispetto al modo di intenderle precedente alla pandemia Covid-19?
La ricerca dei rapporti di prossimità con gli altri non è finita con questa pandemia, mentre si è rafforzata l’attenzione agli altri, giudicando dal fatto che è diffusissimo l’uso delle mascherine, che, come si sa, sono utili per proteggere le altre persone dall’eventuale contagiosità di chi le indossa. Le relazioni stanno cambiando in questo senso. Ovviamente, ci sono forze che tendono a non dare visibilità a questo cambiamento solidale di fatto, ritornando ai ritornelli del consumo: i cenoni di Natale, le piste da sci, lo shopping. Questi sono gli slogan del mondo che non vuole morire, sapendo che, invece, la sua proposta di vita non è più coerente con le esigenze di un pianeta che richiede un cambiamento radicale, superando la logica del produrre e consumare per assumere quella della cura.

Maria Pia Della Monica

Tratto dal bollettino informativo “Arrocchi Artificiali“.