Cineforum: La lotta non è finita

Cineforum: La lotta non è finita

18 Giugno 2023

Il cognome di famiglia non continua se è una figlia, donna come hai potuto amare, quanto potrai amare, il mondo potrà cambiare”. Sono le parole dello stornello femminista del 1972, “Storia di una cosa” che accompagnano i primi piani delle donne protagoniste del documentario amatoriale “La lotta non è finita” (conservato dalla Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico) prodotto nel ‘73 dal Collettivo Femminista di Cinema, una delle poche testimonianze del dibattito femminista degli anni ‘70 su temi come sessualità, aborto, violenza, lavoro, giornate internazionali della donna e nascite dei gruppi di autocoscienza. Un progetto a lungo termine, un melting pot di informazioni utili per le generazioni future di donne e per non essere più considerate, per l’appunto, una “cosa”.

Il solo titolo del documentario proiettato il 31 maggio per il  “Cineforum La Macchia 8.0: Profilo Femminile” è bastato per veicolare la discussione condotta dalla Dott.ssa Simona Libera Scocozza, Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche, che ricorda immediatamente un cartello portato ad una manifestazione femminista a Washington nel 2017 da una donna anziana. Il manifesto recitava “I can’t believe i still have to protest this fucking shit”. Per le donne la libertà non è mai stata una questione di rendita. L’idea che un diritto ottenuto resti tale per sempre, cristallizzato – dice Scocozza citando Norberto Bobbio – è una fallacia. I diritti, a causa del progredire della società, vanno tutelati, curati e protetti. Gli ultimi anni mostrano quanto un cambio governativo possa rimettere in discussione concetti giuridici che sembravano essere ormai acquisiti, scompaginando quell’impianto concettuale che ci ergeva con paternalismo a società occidentale e moderna rispetto ad altre popolazioni. 

La messa in discussione del diritto all’aborto in occidente rimette in campo la dimensione pubblica che incarna il corpo femminile, che secondo la Ricercatrice non è mai collegato alla volontà della donna che lo possiede, ma diventa simulacro di moralità per la comunità, intrisa da una cultura patriarcale e che pensa al corpo delle donne come proprietà collettiva. Per la Dott.ssa Scocozza l’aborto non ha più a che fare con la salute delle donne, ma con la società. La stessa maternità, più che riguardare il genere femminile, riguarda per lo Stato la demografia del paese, e tutto ciò proviene, come nel documentario prodotto nel ‘73, da una cultura che pretende di gestire il corpo femminile intaccando la possibilità di essere usato da chi lo detiene. Il terrorismo psicologico sull’IGV, gli ostacoli posti per l’introduzione della pillola abortiva, tutte misure atte a scoraggiare le donne ad interrompere una gravidanza e stimolare una narrazione sull’aborto fatta di dolore e pentimento. L’aborto è una pratica ormai sicura, e i risvolti psicologici che ne derivano sono appannaggio personale della donna che intende farlo

La discriminazione di genere, strettamente connessa con quella di classe, razziale, delle comunità LGBT dimostra, secondo Scocozza, quanto le donne, in ogni ambito, anche quando l’oppressione non le riguarda direttamente, risultino in svantaggio rispetto agli uomini. La disparità salariale crea, in un sistema capitalista, un divario esorbitante tra uomini e donne, che diventano un “imprevisto” all’interno delle realtà lavorative, sempre idealmente relegate alla pratica della cura, costrette da un sistema culturale a far soccombere la propria autorealizzazione. A livello economico, in alcuni settori estremamente problematici come il fast fashion, le donne costano meno, sono sottopagate, e la loro manodopera è più richiesta per la produzione di abiti a basso prezzo. La questione femminista abbraccia più diritti. È per questo che le donne nere – risponde la Dott.ssa Scocozza ad una domanda sulla discriminazione razziale e di genere – subiscono maggiori soprusi in una società razzializzata: tratta di donne e bambini, sfruttamento sessuale, abusi sessuali in contesti di guerra, mancanza di documenti che non permettono alle donne di tutelare la propria salute. 

L’ampiezza di contenuti e l’intersezione tra le tematiche spinge a porre domande su quale sia allora il luogo più efficace per la messa in atto delle proteste, ad interrogare la docente sul concetto di spazio, e a riflettere  allora su come sia possibile creare questo spazio di libertà all’interno della lotta e se, dagli anni ‘70 ad oggi, il dibattito femminista sia meno presente sulla piazza. Uno dei punti cruciali del documentario è una testimonianza di un gruppo di autocoscienza femminista impegnato a riflettere sulle proprie esperienze. Il racconto di sé sembra fondamentale per le donne che hanno acquisito consapevolezza e per quelle che, non addentro alle tematiche, raccontano un punto di vista in cui è impossibile non trovare comunanza di intenti. La rivoluzione, dice Scocozza, non si racconta soltanto, ma si apprende dal racconto delle altre, e questo modus operandi così costruttivo è estremamente femminile, fatto di ascolto, confronto, furbizia nell’aggirare l’ostacolo e la violenza. La docente, ad una domanda sull’importanza di creare spazi per permettere alle donne di discutere delle proprie istanze e su quanto effettivamente le piazze dei movimenti femministi della prima ondata abbiano ragion d’essere, risponde che per quanto sia ancora necessaria, la piazza è diventata virtuale, con progetti funzionanti in cui è possibile chiedere aiuto e ritrovarsi. Ne è un esempio la realtà di DonnexStrada  – di cui la Dott.ssa Scocozza è rappresentante legale per la città di Salerno – a cui è possibile chiedere supporto se impossibilitate a difendersi da molestie in luoghi pubblici. Il virtuale ha permesso alle donne di connettersi e di connettere le proprie battaglie, sostituendosi a quel condominio che, nel documentario, una donna avrebbe voluto coinvolgere per parlare delle problematiche subite. Quel condominio è ora presente su Instagram, nato come un luogo di sfruttamento dell’immagine, in particolar modo quella femminile, rivendicato poi dalle donne come luogo di discussione. Ciò non significa che la cosiddetta piazza vada obliata: il virtuale non può sostituire a 360° il reale, ma può essere un luogo dove ritrovarsi e creare dei gruppi di pressione politici, collettivi e associazione dove le proprie competenze si intersecano, in modo da potersi poi sedere, nei tavoli preposti, per portare avanti le battaglie per i diritti. Ci sono dei momenti – dice Scocozza- in cui è fondamentale l’incontro in piazza, pacificamente, per dimostrare la propria presenza. 

La violenza del linguaggio è presente anche negli spazi virtuali, esercitata dagli stessi e dalle stesse professionisti/e dell’informazione, estremamente intrisa di una cultura patriarcale che si perpetra a causa di un cattivo uso delle parole. Le espressioni usate per raccontare la violenza sulle donne, i riferimenti al presunto amore del carnefice nei confronti della vittima, l’emotività attribuita ad un comportamento lesivo nei confronti delle donne, non fanno altro che rafforzare l’idea che ciò che il genere femminile subisce non è frutto di un contesto sociale ed educativo completamente inadatto per le donne, ma di semplici atti sporadici di irrazionalità. 

Un ulteriore spunto offerto dal documentario è dedicato al privilegio maschile. Durante una manifestazione dell’8 marzo a Roma del ‘73, un cartellone recita “Dove esiste il capitalismo esiste il privilegio maschile”. Una donna intervistata afferma che in una società capitalistica non può che esistere una divisione del lavoro su base sessuale. L’uomo partecipa alla produzione, la donna, relegata alla maternità, può solo incrementare quella forza lavoro. Il privilegio maschile diventa così difficile da scardinare, perché la maggioranza di chi vi fa parte non riesce ad accettare di poter perdere una fetta di quel privilegio. In quest’ottica, la concessione di un diritto è impossibile: il diritto è sempre una conquista, e lo Stato dovrebbe sempre intervenire per riequilibrare i rapporti di potere che si creano nella società. E all’interno di una società fondata sul capitalismo, il genere femminile risulta sempre in svantaggio. 

Lo svantaggio delle donne è parte delle nostre strutture di pensiero: la lingua ne è lo specchio, e l’opposizione strenua all’inclusione dei femminili professionali all’interno del linguaggio istituzionale ne è la rappresentazione. Il dibattito in aula si esaurisce sul tema per assonanza di idee: declinare la professione al femminile è una necessità, è parte della grammatica italiana e tratteggia la possibilità di racchiudere all’interno della lingua tutte quelle professioni pensate al maschile, dette al maschile, di prevalenza maschile. 

La lotta non è finita, il corpo delle donne è ancora soggetto alla volontà maschile, la sua autodeterminazione, nonostante la lontananza dagli anni ‘70, è ancora in bilico. Più le donne trovano nuovi modi per rivendicarsi, più il patriarcato esercita violenza con sottigliezza. L’unico modo per combatterla è raccontare una storia, con la stessa irriverenza di quelle donne che, insieme, da sole, o in condominio, una canzone alla volta ci ricordano che no, la lotta non è mai finita.

 

Manifestazione realizzata con il contributo dell’Università degli Studi di Salerno.

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