Patrick Zaki: l’impegno di Amnesty Salerno

Patrick Zaki: l’impegno di Amnesty Salerno

30 Gennaio 2021

Il prossimo 8 Febbraio si terrà una mobilitazione nazionale per mantenere alta l’attenzione sul caso di Patrick Zaki: verranno illuminati di giallo monumenti in tutta Italia, con striscioni, cartelli e sagome di Patrick, per continuare a sostenerlo. L’iniziativa è promossa da Amnesty International Italia. In occasione della settimana della memoria abbiamo voluto incontrare il comitato di Amnesty International Gruppo Italia 302 Salerno per discutere delle vicende che hanno coinvolto lo studente Patrick Zaki e il territorio dell’Egitto. 

Patrick Zaki è uno studente universitario, e l’appoggio delle università rispetto alla sua detenzione è arrivato a dicembre 2020 grazie alla lettera della CRUI alle autorità egiziane, sostenuta poi da altre università – l’Alma Mater di Bologna seguita da quelle di Brescia, Cagliari, Messina, Statale di Milano Pisa, Teramo, Sissa di Trieste, Torino e Udine insieme al Consiglio Universitario Nazionale e di Scholars at Risk Italia -. Cosa altro potrebbe fare il mondo accademico per la vicenda di Zaki? Potrebbe esporsi ulteriormente?
Esporsi a favore dei Diritti Umani è forse al momento l’unico modo che abbiamo per mantenere la luce accesa sulla questione sia personale di Zaki, che su quella più ampia relativa alla situazione dei Diritti Umani in Egitto e nel resto del mondo. Sensibilizzare al tema, spiegando quanto accade in Egitto è sicuramente il modo giusto per far sì che non si dimentichi mai cosa realmente accade lontano dai riflettori dei media. Quindi sì, sicuramente sarebbe auspicabile un maggior impegno da parte del mondo accademico, coinvolgendo ancora altre istituzioni universitarie, creando magari un coordinamento nazionale ed una voce unica che si possa far sentire ancora più forte.

Alla luce di quanto accaduto anche con Giulio Regeni, quanto può davvero considerarsi libera la ricerca in Italia? In che modo le università italiane possono proteggere i propri studenti che intendono fare ricerca all’estero?
In Italia sicuramente ci troviamo in uno stato di diritto che permette di esprimerci, almeno sulla carta, senza limitazione alcuna, nei limiti ovviamente della legge. In altre realtà purtroppo non è così. Ci sono limitazioni di ogni sorta, controlli su cosa viene pubblicato sui social, blocchi allo stesso accesso alla rete, forti limitazioni della libertà di espressione, del vivere sociale. In Egitto ad esempio non si possono pubblicare contenuti online o esprimere idee “offline” critiche verso il regime di Al-Sisi e per semplici atti di espressione si può finire in carcere, accusati di “terrorismo”, che è diventato una sorta di grande contenitore non ben delineato, nel quale confluisce ogni tipo di comportamento non gradito. Proteggere in un tale sistema degli studenti non è affatto semplice e la storia di Giulio Regeni, così  come quella di Patrick Zaki, lo dimostra bene. 

Amnesty invita anche le scuole a partecipare con un gesto simbolico alle azioni di sostegno per interrompere la detenzione di Zaki. Che ruolo può avere la scuola dell’obbligo e la didattica per formare studenti e studentesse più giovani ad approcciarsi alla vicenda e in generale alle discussioni sul diritto umano?
La scuola forma, permette di conoscere. La conoscenza è verità. E la conoscenza è lo strumento giusto per formare i  cittadini consapevoli del domani. Il lavoro di ricerca portato avanti da Amnesty (e da altre ONG) parla di prigionieri di coscienza, di libertà negate e molto altro, per cui lo studio e la scuola sono la base da cui partire per poter comprendere i Diritti Umani e fare in modo che vengano vissuti nella loro accezione positiva. Per questo, come Sezione Italiana e come Gruppi territoriali di attivisti volontari di Salerno, siamo molto attivi in ambito scolastico, fin dalla scuola primaria e fino alle superiori, tenendo incontri e proponendo tutta una serie di attività appositamente costruite per gli studenti. Crediamo molto in questo come forma di investimento per il futuro, anche perché spesso i programmi scolastici tralasciano il fondamentale ambito dell’educazione ai Diritti Umani.

La vicenda di Patrick Zaki ha avuto un forte impatto sull’opinione pubblica. Le principali testate giornalistiche e organi televisivi ne hanno parlato a più riprese. Secondo voi, la comunicazione sociale condotta dai media è stata adeguata al tema o sono stati tralasciati dettagli importanti? La detenzione di Patrick sta avendo l’attenzione che merita?
Parlare di conoscenza dettagliata nell’opinione pubblica della questione Zaki è improprio, per quanto, anche per lo sforzo del mondo associazionistico, la vicenda stia avendo una certa risonanza. Di sicuro è stata accesa una luce sulla situazione dei Diritti Umani in Egitto, arriva l’eco di una realtà politica drammatica, in cui la democrazia lascia il posto al regime, nonostante la stagione delle Primavere Arabe e della rivoluzione di Piazza Tahir avesse dato qualche speranza per un miglioramento generale della situazione. Oggi ci sono numerosi prigionieri di coscienza ingiustamente incarcerati, le sparizioni forzate sono all’ordine del giorno, ma difficilmente le loro vicende sono oggetto di attenzione da parte dei media italiani: le vicende Regeni e Zaki sono, purtroppo solo la punta dell’iceberg.

Le mobilitazioni per la scarcerazione di Patrick Zaki è in atto a livello mondiale. Anche in Egitto, paese dove lui è detenuto ingiustamente e conta oltre 700 prigionieri politici e di coscienza, sono presenti studenti e studentesse che si battono per i diritti umani o la pressione esercitata dalle forze governative è talmente tanta da non lasciar alcuno spiraglio per la libertà d’opinione?
In Egitto la situazione non è delle migliori: si contano arresti giornalieri per prigionieri di coscienza, che vengono detenuti illegalmente in carcerazione preventiva anche oltre i 2 anni previsti dalla legge egiziana. Purtroppo vige un sistema per il quale anche un detenuto rilasciato per la decorrenza dei termini potrebbe vedersi prorogata la propria detenzione per imputazioni in realtà inesistenti. Non migliore è la situazione fuori dal carcere: col regime di Al-Sisi si è registrata un’ondata di violenza repressiva eccezionale rispetto al passato; in strada si rischia l’arresto anche per il solo fatto di aver partecipato ad una manifestazione (Zaki partecipava ad una marcia pacifista). Esiste il divieto di riunione e assembramento, non c’è una vera e propria definizione del terrorismo, nel cui contenitore finiscono per essere inglobati una serie di comportamenti sgraditi al sistema e comportanti l’arresto, con la conseguenza ormai nota e tragica di carceri sovraffollate. Questo però non ha fatto morire lo spirito della rivoluzione: i giovani soprattutto vogliono un cambiamento a favore dei diritti e dell’uguaglianza e, nonostante i grossi rischi cui vanno incontro, giornalmente si espongono per affermare le loro idee.

A giugno, il presidente egiziano al-Sisi ha annunciato il rilascio di 530 detenuti come misura di contrasto al Covid-19. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha colto l’occasione per chiedere che tra i prigionieri rilasciati rientrassero anche coloro che non avrebbero mai dovuto esserlo come Patrick Zaki in considerazione anche del suo stato di salute, essendo asmatico e, quindi, un soggetto a rischio di contagio. Ennesimo appello rimasto inascoltato e la detenzione è stata anche prolungata. Quale futuro possiamo prospettare?
Il 1° Febbraio avremo l’ennesima udienza per Patrick, il quale appunto è un soggetto molto esposto al contagio da Covid, specie in carcere dove la pandemia ha raggiunto numeri eccezionali. Patrick oltre a non star bene fisicamente, è emotivamente provato. Tra il 2 e il 3 Febbraio conosceremo la sua sorte. Ovviamente la speranza è quella della scarcerazione, per una detenzione ormai giunta al dodicesimo mese, del ritrovamento della libertà dalle 4 mura di una cella, le cui chiavi sono in mano a molti, compresi noi italiani. È importante ribadire questo concetto, perché con lo strumento delle petizioni, della pressione dell’opinione pubblica e diplomatica, si possono raggiungere risultati molto importanti, tra i quali la risoluzione di casi come quello di Zaki: la storia di Amnesty International, fin dal 1961, lo testimonia.

Corrado Augias ha restituito all’ambasciata francese la legione d’onore dopo la consegna dello stesso riconoscimento, da parte di Macron, ad Al Sisi. L’accusa di Augias è riferita anche al silenzio, da parte delle autorità francesi, rispetto all’evidente violazione dei diritti umani che ha colpito l’Italia. Rispetto alla questione Zaki, quanto sono attive le autorità europee?
Purtroppo, se Patrick ancora è in prigione, va da sé che non è stato fatto abbastanza dalle autorità europee per lui, come per tutti gli altri prigionieri di coscienza in Egitto. Ciò che lì accade  è sotto gli occhi di tutti, ma interessi di altro tipo, poco affini alla tutela dei Diritti Umani, guidano i governanti europei, nonostante le denunce che arrivano giornalmente da parte delle ONG e gesti molto importanti come quello di Corrado Augias.

Bill Van Esveld, responsabile del settore diritti dei bambini di Human Rights Watch, ha pubblicato un rapporto di oltre 43 pagine dove testimonia l’esperienza di torture subite dai bambini. Waterboarding, scariche elettriche, oltre ad essere detenuti in celle sovraffollate, giudicati da tribunali militari e sottoposti a diverse forme di torture. Com’è possibile che nonostante la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e la stessa legge egiziana (che prevede che i bambini siano giudicati da tribunali per i minori) vi siano violazioni così plateali dei diritti dei minori?
Abbiamo a che fare con un regime politico corrotto e violento, un regime di polizia in cui ogni libertà o diritto umano viene compresso e compromesso. Nel 2019 si è tenuto un referendum che ha blindato il potere di Al-Sisi e dei suoi eredi per molti anni ed è facile presumere che di regolare nel risultato elettorale ci sia stato ben poco. In questo sistema anche i minori non ricevono alcuna tutela, per le ragioni legate alla precedenti domande e spesso le convenzioni firmate e ratificate restano lettera morta. Questo, oltre ai problemi specifici dell’Egitto, è effetto del “peccato originale” dell’ordinamento giuridico internazionale, che, per la violazione di obblighi internazionali, prevede molto raramente meccanismi sanzionatori, comunque sempre difficilmente azionabili. Rimane lo strumento della pressione internazionale a livello diplomatico, da parte di altri stati. Quando ciò, per motivi diversi, non si verifica, può subentrare la pressione esercitata da parte dell’opinione pubblica internazionale che, per il tramite dell’attività di lobby sui propri governi, si riversa poi sugli stati protagonisti delle violazioni, attraverso gli stessi canali diplomatici.

In Egitto ormai si contano oltre sessantamila detenuti politici: blogger, attivisti, giornalisti, chiunque esprima un parere non condiviso dal regime finisce per essere accusato di terrorismo, incarcerato, sottoposto a torture e processato in modo iniquo. Cosa spinge l’Europa a non prendere ancora una chiara posizione contraria a quanto accade in Egitto?
Col rischio di ripeterci, c’è da ribadire che ragioni economiche e commerciali prevalgono su tutte le altre considerazioni. Questi interessi prevalgono su tutto il resto, anche rispetto alla salvaguardia della vita umana.

Nonostante la legge n.185 del 1990, che vieta la vendita di armi a paesi i cui governi si sono macchiati di gravi violazione dei diritti umani, l’Italia continua lo scambio commerciale con l’Egitto: lo scorso 23 dicembre in Liguria è stata consegnata la prima fregata militare Fremm. Per quale motivo l’Italia non riesce ancora a discostarsi dall’Egitto nonostante quanto tuttora accade? Si sta davvero preferendo il carattere commerciale a quello umanitario del rapporto tra i due paesi?
Brutalmente: sì. Non è casuale che proprio negli ultimi anni le commesse militari egiziane al nostro Paese siano aumentate esponenzialmente. Il fatto che la legge 185 sia stata applicata soltanto una volta in oltre 30 anni, proprio in questi giorni, per la revoca (dopo un periodo di sospensione) da parte del governo delle autorizzazioni all’esportazione di armi all’Arabia Saudita, dovrebbe far capire molto bene di cosa stiamo parlando. Si è arrivati a questo risultato in Arabia dopo anni di pressioni sul governo da parte di Amnesty, della rete per il disarmo e di molte altre associazioni, dopo una serie di ricerche condotte sul campo che hanno evidenziato come gli armamenti italiani e di molti altri stati occidentali siano stati ampiamente utilizzati dalla coalizione guidata dai sauditi in raid contro lo Yemen, spesso finiti per mietere vittime innocenti, colpendo ospedali e strutture civili in genere. Il conflitto, lo ricordiamo, non è stato autorizzato dall’ONU e l’export delle nostre armi ha reso possibili queste violazioni per molti anni. Nonostante questo risultato molto importante, sempre negli ultimi giorni, è scoppiato il caso di un Senatore italiano in carica che si è recato a Riad per tenere un’intervista al principe ereditario saudita bin Salman. Proprio in questa occasione l’Arabia è stata lungamente e animosamente lodata come esempio da seguire, nonostante la lista infinita di Diritti Umani violati e calpestati, tra i quali i diritti delle donne, la libertà di espressione, i diritti dei lavoratori, il ricorso generalizzato alla pena capitale, alla tortura, alle punizioni disumane e degradanti verso i detenuti, l’enorme numero di prigionieri di coscienza e via discorrendo, che viene quotidianamente aggiornata da molte ONG, tra le quali Amnesty International. Ebbene, sarebbe probabilmente meglio prestare maggiore attenzione a non commettere questi errori, per non rischiare di vanificare risultati importanti così difficoltosamente ottenuti, soprattutto se come protagonista della vicenda troviamo una personalità che, in trasferta all’estero, indubbiamente rappresenta non solo sé stesso, ma anche un’istituzione importante come il Senato della Repubblica e, chiaramente, l’Italia.

La Redazione