La liberazione di Silvia Romano, la prigionia di Aisha

La liberazione di Silvia Romano, la prigionia di Aisha

30 Maggio 2020

Silvia Romano, Aisha, è tornata a casa. Stava svolgendo azioni di volontariato in Kenya quando fu rapita a novembre del 2018. Dopo mesi, è stata liberata in Somalia il 9 maggio 2020. Ore, giorni, settimane e mesi di incertezza hanno trascorso la sua famiglia e gli amici più cari. Più di un anno a chiedersi se mai l’avrebbero rivista. I giorni non erano più gli stessi, quella che consideravano normalità era solo un semplice tirare avanti sempre con quell’unico dubbio in testa. Il pensiero di Silvia non li ha mai abbandonati e con esso la speranza un giorno di poterla riabbracciare. Sicuramente, però, il suo ritorno a casa se l’erano immaginato diversamente

La spettacolarizzazione della figura di Silvia Romano è perfettamente aderente alla prosopopea sessista di chi pretende di poter ancora giudicare una donna secondo un’idea di “libertà” costruita su canoni maschili e dettati da uomini. Immagini pubblicate da personaggi politici e giornalisti ne sono la prova: rappresentazione semplicistica del cambiamento di una donna dal “prima” al “dopo”, dalla minigonna al velo, molto simili alle foto delle star pubblicate sui giornali spazzatura, prima “in forma” per compiacere il nostro sguardo, ora ingrassate, poco curate, con le rughe e la buccia d’arancia. Come a dire “guarda quanto eri valida prima, guarda quanto ora non lo sei, non soddisfi più la nostra idea di bellezza”. Silvia è sotto giudizio, era valida in minigonna, adesso, con il velo, non lo è più, non è occidentale, è troppo felice, cambiare idea – liberamente o no – non la rende più adatta all’immaginario di donna a cui abbiamo deciso di abituarci. E l’indagine – comunque non necessaria – sulla sua conversione, avrebbe meritato un’analisi estremamente profonda, costruita, ricca di approfondimenti, fondata su una voglia di comprendere il perché la sua spiritualità abbia subito una mutazione, su come l’Islam si manifesti realmente al di fuori del fondamentalismo. 

La gogna mediatica a cui è stata sottoposta la sua figura è solo l’ultimo degli esempi della mancanza di empatia a cui stiamo assistendo quasi indifferenti giorno dopo giorno. Si ha dimostrazione ogni qualvolta che lo sguardo scorre i commenti sulla home di qualsiasi social o quando ci capita di cogliere distrattamente una conversazione tra due passanti. La mente umana è portata a dare un proprio giudizio su qualsiasi argomento, soprattutto quando non è richiesto. Assistiamo ad un determinato evento e, quasi fosse una conseguenza diretta, giudichiamo coloro che sono stati coinvolti. Delle volte, però, esporre i propri pensieri senza freni non è necessario, soprattutto quando rappresentano completamente l’opposto di quello che bisognerebbe dire se si usasse un briciolo di empatia. La parola empatia deriva dal greco “εμπάθεια” e il suo significato etimologico è “sentire dentro” o, più comunemente, “mettersi nei panni dell’altro”. Una capacità che è parte dell’esperienza animale ed umana, ma è proprio in quest’ultima che sembra affievolirsi inesorabilmente. Un anno e mezzo. 18 mesi in un paese straniero, prigioniera di persone senza volto che conversavano in una lingua a lei estranea, senza sapere se fosse sopravvissuta un altro giorno. É ciò che ha affrontato una ragazza di 24 anni facendo leva sulla speranza di ritornare a casa e riabbracciare i suoi genitori. Silvia Romano ce l’ha fatta e noialtri, completamente all’oscuro di ciò che ha dovuto sopportare a chilometri di distanza, non dovremmo fare altro se non gioire vedendola coronare il desiderio di stringere a sé i suoi genitori. Se avessimo anche solo un granello di empatia, non ci sarebbe neanche bisogno di specificarlo

Credere ancora che un abito renda valida e degna una donna di essere salvata e di poter tornare nel proprio paese, significa far compiere alla libertà della donna, nuovamente, una maratona all’indietro. Silvia Romano è stata tenuta in ostaggio in un paese straniero, Aisha è oggi prigioniera nella propria casa. In quale religione scelga di credere, con quale nome decida di farsi chiamare e quali abiti voglia indossare, sono argomenti su cui non sta a noi né a nessun altro sindacare. 

La Redazione