Sudan: le mutilazioni genitali sono finalmente reato

Sudan: le mutilazioni genitali sono finalmente reato

25 Luglio 2020

Il 22 aprile del 2020 il Sudan ha classificato formalmente come reato le pratiche delle mutilazioni genitali femminili. Una svolta storica verificatosi ad un anno dal colpo di Stato culminato con la caduta del regime di Omar Al Bashir che, a trent’anni dalla carica di Presidente, ha presentato le dimissioni. A dare l’annuncio dell’importante presa di posizione è stato il Consiglio Sovrano del Sudan, un governo di transizione verso la democrazia, istituito il 20 agosto 2019 con valore di carica per 39 mesi. Nato con la Dichiarazione Costituzionale, il Consiglio è composto da cinque civili scelti dalle Forze dell’alleanza per la Libertà e il Cambiamento, cinque militari scelti dal Consiglio Militare di Transizione (TMC), e un civile scelto attraverso un accordo tra FFC e TMC. A capo del Consiglio Sovrano attualmente vi è un membro militare, Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, per i restanti diciotto mesi però la carica passerà ad un membro civile fino alle elezioni generali in Sudan previste nel 2022. “È un passo enorme per il Sudan e il suo nuovo governo” ha dichiarato Nimco Ali della Five Foundation, un’organizzazione che protesta a livello mondiale per la fine delle pratiche di mutilazione genitale. “L’Africa non può prosperare a meno che non si prenda cura delle sue ragazze e delle sue donne. Questo governo sta mostrando i denti”.

La pena prevista è di tre anni di reclusione, una multa ed il sequestro del luogo dove è stata effettuata la pratica. La norma sarà introdotta nel Codice penale con una legge che ne dichiarerà l’ufficialità, seguendo i dettami della Dichiarazione Costituzionale sui Diritti e le Libertà dello scorso anno. Quella della mutilazione genitale femminile è una pratica riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani, però l’assenza di leggi specifiche a riguardo ha permesso ai paesi di essere indulgenti di fronte ai casi che si sono verificati. Sono almeno ventisette i paesi Africani in cui questa usanza, derivata da dogmi radicati nella tradizione e nella religione, viene praticata portando con sé pesanti conseguenze a coloro che la subiscono, tra le quali dolore intenso e sanguinamento eccessivo, difficoltà ad urinare, cisti, infezioni e infertilità, oltre a problemi a livello psicologico.

Una circoncisione con una lama e senza anestetico. È questa l’operazione che sono costrette a subire bambine e ragazze che rappresentano, secondo le convinzioni, il passaggio dall’età infantile a quella adulta per indicare l’essere pronte a ricoprire il ruolo di mogli e madri. Nahid Jabrallah, direttrice del Centro Sima per la protezione di donne e bambini, ha dichiarato che nel 2018 circa il 65% della popolazione femminile era stata sottoposta alla mutilazione. Una percentuale inferiore a quella stimata nel 2000 che arrivava all’88%, ma decisamente ancora troppo elevata. Il timore è che una legge possa non essere sufficiente a fermare la diffusione della pratica. Com’è accaduto in Egitto dove a inizio 2020 una bambina ha perso la vita nella sala operatoria di una clinica privata, nonostante la pratica sia stata vietata nel 2008 con una modifica nel 2016 che incrimina i dottori e i genitori che facilitano l’operazione fino a 7 anni di reclusione, il doppio se si causa disabilità o morte.

Una legge non basta a bloccare in modo definitivo i rituali brutali radicati nelle tradizioni, ma sicuramente segna un primo importante passo verso l’abolizione totale della pratica entro il 2030, obiettivo posto dal governo sudanese. Questa norma concede alle bambine e alle famiglie la possibilità di tirarsi indietro, di rifiutare. Una svolta storica, che dà alla popolazione femminile del Sudan il diritto di opporsi fino al giorno in cui non ce ne sarà più bisogno perché le mutilazioni genitali femminili saranno diventate solo un ricordo.

Annaclaudia D’Errico

Tratto dal bollettino informativo “Metamorfosi“.