Javier Marías – Un cuore così bianco

Javier Marías – Un cuore così bianco

5 Agosto 2016

Non ho voluto sapere, ma ho saputo: nascosto dietro la mancata conoscenza degli avvenimenti, prende avvio l’intero avvicendarsi del romanzo Un cuore così bianco, alle cui spalle albergano esistenze singolari eppure molteplici, incatenate a un avvenimento ormai perso, animato soltanto nella forma del ricordo e della confessione: di ritorno dalla luna di miele, mentre ancora gli ospiti si beano nel progetto di un futuro radioso per la giovane sposa, Teresa spara un colpo verso il petto e si toglie la vita. A chi accorre non resta che lo spettacolo macabro di un seno dilaniato accanto a uno ancora sano, un corpo ormai asimmetrico.

Un episodio, un semplice episodio che tuttavia non può non costituire l’epicentro di un universo narrativo interamente significante, come il filosofo Gilles Deleuze raccontava essere quello dell’opera di Proust, dove qualsiasi elemento si avvicina a un altro attraverso l’azione di un intelletto trasparente. La trasparenza, certo, si presenta nelle vesti della sua più splendida ambiguità: se da una parte è presenza, avvertimento, se pare gridare a ogni momento la propria contingenza; dall’altra è anche silenzio, abita il mondo del non detto, dell’affrancamento dal racconto. Javier Marías trascrive un romanzo dell’interruzione, sin dall’incipit descritto: il pranzo di buon auspicio è interrotto dal sinistro presagio dallo sparo; il boccone che il padre della suicida mastica a fatica è interrotto tra i denti; l’attesa dell’amante dell’uomo dalle braccia villose durante il viaggio di nozze del protagonista è interrotto dalla sua apparizione alla finestra come lo stesso viaggio è interrotto da un malore che costringe a letto la neosposa, e così per l’intero dispiegarsi dell’opera. L’interruzione nasconde in sé il germe del segreto, quel silenzio ammiccante che sembra sottolineare a ogni racconto mancato la propria meschinità.

In materia relazionale il silenzio non è mai completo (ancora quell’interruzione di cui si scriveva), piuttosto suggerito, meglio tradito, da un tono, un’esitazione, un equivoco. Se la ricerca della verità si fa a un tratto così incessante, così paranoica, non è per un sospetto o ancor peggio per un presagio, è invece perché il non detto non produce che una narrazione balbettante, eppure accesa nella sua essenza. Il segreto tradisce la propria partecipazione alla vita, una mancanza d’indifferenza, non chiede che di essere spogliato dal velo di mutismo e di malizia che a un tempo lo protegge e lo imbarazza esplodendo d’un tratto, come il colpo di pistola dritto nel petto, nella violenza della scena. Quando il racconto non è più interrotto, e ciò avviene nel corso del romanzo per due volte che si rivelano fatali, è allora che la brutalità si concede interamente al dramma: il racconto è ormai in quel che è già avvenuto, appartiene a ciò che non è più e su cui alcuna forza potrebbe mai intervenire. Come comportarsi allora nei riguardi dell’avvenimento? Di fronte a ciò che ha visto l’uomo agito, eppure agente, protagonista insieme spettatore? Reagire, soccombere? A interrogativi del genere il romanzo, per fortuna, non concede risposta.

Come il protagonista, il lettore è all’oscuro del segreto che affligge il passato e non sa terminare insieme con lui la ricerca di un’integrità alle frasi monche cui è sottoposto. Per tale motivo nell’opera appare una certa architettura degli avvenimenti, come ogni evento rimandasse a un altro, ogni frammento alla completezza di una più imponente narrazione: non a causa del fatalismo che sottenderebbe ogni soggetto al caso salvo concedergli con una mano lo zuccherino del filo rosso, piuttosto per lo sguardo miope con cui il narratore si rapporta al racconto, attraverso il quale, tentando un’abitudine all’oscurità, propone vincoli fra gli avvenimenti. Illusori? Al lettore non è dato giudicare.

Javier Marías – Un cuore così bianco. Traduzione italiana di Paola Tomasinelli. Einaudi.

Antonio Iannone