Digressioni democratiche

Digressioni democratiche

10 Gennaio 2021

Lo sciamano a petto nudo ed il viso a strisce con in mano una lancia a cui è appesa la bandiera americana, Mark Zuckerberg che pubblica un post in cui annuncia che gli account social di Donald Trump saranno bloccati per un tempo indeterminato, agenti di polizia che fanno un selfie ed invitano i manifestanti ad entrare. Queste sono le immagini che rimarranno impresse del 6 gennaio 2021. Giorno in cui un gruppo costituito da neonazisti, QAnon, antisemiti, suprematisti bianchi, troll, Proud Boys, hanno deciso di assaltare il Campidoglio, cuore della democrazia americana, per protestare, in modo tutt’altro che pacifico, contro la vittoria di Biden eletto nuovo Presidente degli Stati Uniti. La controproposta alle immagini simbolo dell’azione avvenuta a Capitol Hill l’ha restituita il web, la piazza 2.0, la nuova protesta, una propagazione semplice di immagini proposte e riproposte che suscitano ilarità e sdegno verso i partecipanti al (seppur in maniera forse irrisoria o disorganizzata) tentato colpo di stato

Un’opera sovversiva finita male, ma che sicuramente ha segnato in maniera diversificata l’immaginario collettivo, che tra teorie del complotto, manifestanti che fingevano di piangere con le cipolle nascoste nei tovaglioli invocando la rivoluzione e la possibile presenza di Jason Kay dei Jamiroquai munito di copricapo all’assalto, sta ancora tentando di tirare le fila di un avvenimento a cui non era necessario assistere. Non è però scontato il fermento nato sulle piattaforme social, dato l’uso delle stesse da parte dell’ormai svelato e reale promotore dell’insurrezione. Donald Trump, a colpi di tweet e stati Facebook in cui inneggiava al voto truccato, da un lato ridicolizzando la propria credibilità politica e dall’altro fomentando i suoi sostenitori, ha concluso la sua operazione distruttiva in un comizio nella capitale il giorno dopo le elezioni in Georgia pronunciando le seguenti parole: “Non ci arrendiamo, non concederemo mai la vittoria”. Giorni prima, in una manifestazione vicina alla capitale, l’avvocato personale di Donald Trump invocava un “Trial by Combat”, un vero e proprio “duello giudiziario” (vince chi muore) in uso in epoca medievale e scomparso nel sedicesimo secolo. Non è necessario ribadire tutto ciò che è accaduto dopo, ma la possibilità che il metodo comunicativo del (quasi) ex Presidente americano sia effettivamente deleterio per come viene recepito dai suoi fans più accaniti è oramai alla portata di tutti, e le piattaforme social che lo propagano sono proprio quelle da cui (pare ormai definitivamente) Trump è fuori. La decisione del fondatore Mark Zuckerberg di rimuovere il Presidente da Facebook e Twitter è probabilmente una sintomatica presa di coscienza non solo del rispetto delle linee guida aziendali, ma della pericolosità delle parole promulgate, che diventano effettivamente azione, legge. Se alcuni si appellano ad una presunta mancata tutela della libertà di pensiero, altri sbattono letteralmente contro la possibilità che un discorso diffuso via web, un tweet, un hashtag possano provocare un tentato golpe. Ma la controcultura del sovranismo, fascismo e razzismo era ed è già ampiamente diffusa. La notizia del nuovo account di Trump su Parler, il “twitter di destra” e senza censure è stata smentita, ma Google Play ha provveduto comunque a rimuoverla dalla propria piattaforma per la mancata moderazione di account e commenti da parte dell’app, e i sostenitori di Trump pare fossero già da tempo attivi e pronti all’assalto del Parlamento proprio grazie alla connessione sul meno celebre social “libero”. Qualcuno ipotizza anche una possibile combutta con le forze dell’ordine, congettura improbabile, ma stimolata dal comportamento sconcertante della polizia di Washington nei confronti della sommossa.

Abbiamo bisogno che usciate tutti da qui” questa è la frase che un agente ha dato in risposta alla domanda di uno dei manifestanti che hanno fatto irruzione a Capitol Hill in cui gli chiedeva dove fosse il bagno. Parole che sono state pronunciate in tono pacato, quasi come se fossero rivolte ad un amico, e non urlate ad un megafono. Poco dopo o prima, un altro poliziotto accetta di fare un selfie con un dimostrante. Scene accadute in conseguenza all’irruzione dei protestanti pro-Trump in Campidoglio, corsa che, secondo quanto si nota in un video pubblicato su social e notiziari, non è stata minimamente ostacolata dagli agenti della sicurezza che anziché contenere la folla si sono adoperati per rimuovere le transenne che impedivano di raggiungere l’edificio. Azione che è stata giustificata come una tecnica di de-escalation, un insieme di interventi che hanno come obiettivo quello di diminuire la tensione e l’aggressività. Un comportamento più che atipico, considerando che la stessa Capitol Police sei anni fa ha sparato venti colpi di fucile uccidendo Miriam Carey, donna afroamericana, solo perché in auto con la figlia di appena un anno – rimasta illesa – si era avvicinata troppo alla sede del Governo degli Stati Uniti. E se non si vuole fare un salto temporale così lungo, basta riportare alla memoria lo spiegamento delle forze dell’ordine durante la manifestazione pacifica del 1 giugno 2020 degli attivisti del Black Lives Matter dopo la morte di George Floyd. Per quell’occasione, erano stati disposti oltre 5mila agenti, con elementi anche della Guardia Nazionale e di diverse agenzie federali, per contenere la folla. Un numero decisamente più elevato rispetto ai pochi agenti presenti all’interno e all’esterno del Campidoglio il 6 gennaio 2021. Cifra che si differenzia di molto anche se si considerano il numero di arresti effettuati: 26 contro gli oltre 14mila delle proteste del movimento BLM. Ed i 26 non sono stati fermati per l’assalto, ma per aver violato il coprifuoco delle 18:00 imposto da Muriel Bowser, sindaco di Washington. Dopo aver seminato il panico per 4 ore all’interno dell’edificio tra selfie, alla ricerca del bagno e la distruzione intere sale, gli invasori vengono scortati via da agenti in tenuta antisommossa ed un paio di loro aiutano anche una manifestante a scendere le scale situate all’esterno. Gesto sicuramente da apprezzare e distante da quanto accaduto a Martin Gugino, l’uomo di 75 anni che il 5 giugno 2020, durante una protesta dei BLM, è stato spintonato dalla polizia di Buffalo e la caduta gli ha causato la frattura del cranio. I principali media americani parlano di “falle della sicurezza” e i filmati saranno visionati dall’FBI che si occuperà di indagare sul caso. In ogni caso, le azioni della polizia di Washington lasciano più di qualche perplessità ed è quasi come se avessero avuto l’ordine di comportarsi in maniera passiva e non usare eccessiva forza, almeno quando si tratta di manifestanti bianchi.

Il 6 gennaio l’intero mondo ha visto come non sia affatto così difficile stimolare e sprigionare la parte più oscura delle persone e di un paese quando si utilizza un linguaggio aggressivo che vede l’altro schieramento solo come un nemico o, più precisamente, come un ostacolo all’affermazione della propria realtà. Un impedimento alle proprie idee, al proprio modo di guardare e concepire il mondo e, inevitabilmente, le istituzioni. Un luogo franco, libero, dove gli schieramenti politici si confrontano e si scontrano, è stato occupato, preso e spogliato della sua ideale funzione e immagine. Accade questo quando la comunicazione dialogativa si trasforma in semplice affermazione del proprio sé, della propria parte, delle proprie idee e dei propri desideri. Scompare l’interlocutore. Scompare quella che dovrebbe essere una democrazia. C’è un filo conduttore che lega un ipotetico assalto alla democrazia, la sospensione dei canali social del Presidente Trump e il lascia passare offerto dalle forze di polizia ai manifestanti. È il diffuso atteggiamento di immaginare le istituzioni (più precisamente i poteri pubblici e l’immagine stessa di questi) non come spazi a sè, quasi sovranazionali sebbene interregionali, ma come strumenti da utilizzare a proprio piacimento quando se ne riesce ad assumere il controllo. Qualche giorno fa lo abbiamo visto in America ma è da tempo che ne vediamo i sintomi in Italia. Quanta differenza può intercorrere tra l’assaltare il Congresso e l’aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno? A noi forse è andata meglio, l’istituzionalizzazione delle forze populiste ha prevalso, anche se restiamo un paese che ha ridotto il numero dei propri parlamentari ritenendoli dei fannulloni spendi-soldi senza aprire alcun dibattito su legge elettorale e potere dei partiti politici. Da noi nessuno ha indossato in Parlamento le corna da vichingo, ma qualcuno ha stampato su uno striscione le poltrone dell’organo legislativo per poi farlo in brandelli con delle mega-forbici in diretta Facebook. Urge un momento di riflessione e pacificazione anche qui. Anche tra noi. Un più attento linguaggio che veda “gli altri” come coloro che al proprio pari possono dare un contributo al dibattito pubblico e allo sviluppo di qualche progetto politico. Che riconosca le istituzioni come dei soggetti al di sopra delle parti dove queste ultime si confrontano e mettono insieme qualcosa di davvero utile per il paese. Se non è chiaro questo, se non diventa il nuovo alfabeto politico, allora non siamo poi così lontani dai tempi antichi in cui la democrazia era molto distante e di vichinghi con le corna da bufalo ce ne erano molti

La Redazione