Nessun campo di concentramento è mai nato da solo

Nessun campo di concentramento è mai nato da solo

27 Gennaio 2025

A noi tutte/i hanno insegnato che ricordare serve a prevenire. Come per qualsiasi apprendimento della vita: si impara per far sì che ciò che non deve accadere, non accada. Quello che si ricorda, per definizione, è qualcosa che non c’è più. E anche l’uso del termine “ricordare” non è affatto casuale: ricordare significa riportare al cuore. La memoria, invece, ha a che fare con l’attività della mente. Un ricordo non è soltanto la trasposizione all’oggi di quanto accaduto, è invece la nostra trasposizione al passato: siamo noi che riviviamo quel momento come se stesse accadendo di nuovo. Ricordiamo oggi la shoah, la diaspora degli ebrei, torturati e uccisi nei campi di concentramento. Ricordiamo la costruzione di una campagna di odio su di loro e il silenzio dell’indifferenza in cui tutto questo si è sviluppato. Oggi, allora, dovremmo ricordare quei fatti, quel dolore, quella sofferenza sapendo di non essere più complici di una simile barbarie. Dovremmo ricordare qualcosa che non c’è più. E, invece, ci troviamo di fronte ad un cortocircuito etico, perché, alla luce di quanto apprendiamo dai media, sappiamo che l’epoca che stiamo vivendo ha fin troppi tratti comuni con quella in cui la shoah è stata perpetrata.

I rifugiati palestinesi (per definizione: una persona il cui normale luogo di residenza è stata la Palestina tra il giugno 1946 e maggio 1948, che ha perso sia l’abitazione che i mezzi di sussistenza a causa della guerra arabo-israeliana del 1948) sono quasi sei milioni. Da molti anni sono in lotta per la propria libertà. Hanno perso la propria casa e i propri averi per via di tutta una serie di manovre (politiche, economiche e militari) adottate da Israele che hanno costretto i palestinesi a lasciare le proprie case e a diventare rifugiati. Alcuni dei quali si sono insediati sulla striscia di Gaza. Proprio lì, a partire dall’ottobre 2023, sono morti almeno 47.000 palestinesi. Le immagini sono terrificanti: è tutto distrutto, tutto è in macerie. Letteralmente: 42 milioni di tonnellate. Serviranno 14 anni per rimuoverle.

Il 27 gennaio 1945 le porte del campo di concentramento di Auschwitz si aprirono e il mondo assistette imperterrito alla scoperta delle violenze perpetrate ai danni di ebrei, rom, omosessuali, testimoni di geova e persone con disabilità. Ad anticipare la costruzione dei campi di concentramento non ci furono i proclami sull’obiettivo di sterminare un popolo, ci furono invece intense campagne di diffamazione volte ad etichettare gli ebrei come inefficienti e inadatti al proprio Stato. Le prime azioni che il potere politico compì furono di esclusione e marginalizzazione e, infine, di sterminio.

Nessun campo di concentramento è mai nato da solo. Nessuna violenza perpetrata ai danni delle minoranze è mai stata un atto isolato. La violenza è stata legittimata. E continua ad esserlo anche oggi. Sono recentissime le immagini di alcuni immigrati che dagli Stati Uniti d’America vengono rimpatriati indossando lunghe e pesanti catene. Sono altrettanto recentissime le immagini del nuovo ministro per l’efficienza del governo americano che replica il saluto fascista. In Italia ogni anno assistiamo a raduni con simboli, scenografia e gesta dichiaratamente fascisti. Ascoltiamo spesso parlare di normalità e anormalità, come se ci fosse un modello di vita da accettare e un altro da condannare. L’attuale società, italiana e non solo, continua a separare alcune persone da altre (non ultimo: le parole del ministro dell’istruzione e del merito che ha proposto la formazione di classi separate per gli studenti stranieri). Si parla sempre più frequentemente di divisione, di libertà degli Stati nazionali (che altro non significa che abbandonare il principio di solidarietà tra gli stessi), di interessi personalissimi, di disuguaglianze che ora non vengono più combattute ma, anzi, legittimate.

Sappiamo tutte/i com’è iniziato: esattamente come sta iniziando adesso. Difendendo un nazionalismo esasperato, propugnando una politica che avvantaggi esclusivamente il proprio Stato senza provare interesse per gli/le altri/e. La Germania degli anni ‘30 voleva essere grandiosa, potente, irraggiungibile. Ogni volta che un politico perpetra la stessa dialettica, è utile, per tutti e tutte, chiederci a discapito di chi verrà costruita questa grandezza. Perché una politica che parla di libertà assoluta, che non pone limiti a salvaguardia dei più deboli ci riporta a uno stato di natura in cui, come insegna Hobbes, vincono solo i forti. E i deboli? Quelli vengono etichettati come inefficienti e, pertanto, sacrificabili.

Sappiamo, inoltre, che tutto quello che è accaduto e che ha portato alla creazione dei campi di concentramento è stato accompagnato dal silenzio, dall’indifferenza e dalla minimizzazione delle prime azioni e delle prime parole spese. Lo vediamo anche adesso: i simboli fascisti sono solo folklore, le classi separate sono uno strumento a favore degli stranieri, gli immigrati stanno bene a casa loro, le parole offensive sono soltanto libertà di espressione, i palestinesi vengono attaccati perché fanno resistenza, le diseguaglianze non sono affar nostro.

Sappiamo tutti/e che è cominciato così. Sapremo produrre un esito diverso?